La mostra

Questa edizione di Intrame si è conclusa. Proveremo a tornare tra un paio di anni, mantenendo il format ma cambiando gli artisti.
Il nostro ultimo grazie è per loro, gli artisti della mostra. Hanno messo a disposizione la loro arte, professionalità ed esperienza oltre a offrirci fiducia incondizionata. Hanno messo a disposizione i loro progetti gettandoli in un pentolone prima ancora che bollisse qualcosa. Hanno rischiato con noi e noi non possiamo che ringraziarli.

Inaugurazione

Possiamo finalmente affermarlo. In pochissimo tempo siamo riusciti a creare un evento che ci ha messo duramente alla prova ma pienamente soddisfatti.
All’inaugurazione eravate presenti in tantissimi. E’ a tutti voi che va il nostro grazie più grande. Senza il vostro calore e supporto non avremmo generato nulla. Per questo grazie a tutti presenti, in qualsiasi modo e forma.

  

Riempire i vuoti

Ogni creatura o creazione è il risultato di processi. Molteplici fattori interni ed esterni condizionano e determinano l’esistenza degli esseri viventi e degli oggetti.
Angelo Marinelli e Mattia Vernocchi lo sanno bene.
Angelo è nato a Monteiasi, paese della provincia di Taranto. Alle sue origini è fortemente legato anche se vive a Roma ed ha vissuto in Asia. Sotto un’apparente staticità i suoi scatti nascondono un incredibile dinamismo risultando pieni di vita anche quando ambientati in luoghi abbandonati.
Mattia nasce a Cesena ma vive nelle campagne di Gambettola (FC). Ha frequentato l’Istituto d’Arte di Faenza dove è entrato in contatto con la ceramica. Le sue opere sono incredibilmente autentiche e si focalizzano su ricerche e sperimentazioni che fondono materiali e concetti apparentemente incompatibili.
La poetica dell’abbandono, l’analisi del vuoto, la necessità di rinascere sono tematiche affini ai due artisti che le raccontano utilizzando le tecniche a loro più congeniali: la fotografia e la scultura.
Nel progetto “N-structure” Angelo indaga la condizione umana in maniera intima, interrogandosi su quanto le strutture imposte o che ci imponiamo possano limitare le nostre libertà fino a diventare vere e proprie gabbie. Al centro di ogni scatto c’è l’uomo, protagonista della scena insieme alla natura che lo circonda. Angelo decide di ambientare il suo progetto a Bali, in Indonesia, dove il binomio libertà/natura è evidente ma perennemente in bilico. Il risultato è una serie di scatti forti ma che lasciano aperta la porta della speranza, rappresentata da uomini in piedi che non si lasciano schiacciare dal peso delle strutture e che a volte riescono a liberarsene lasciando le gabbie vuote.

Per Mattia le gabbie vuote sono nutrimento, spunto per ricerca e riflessione. Non rappresentano un ostacolo da superare ma un elemento da conoscere. La materia di cui sono fatte convive perfettamente con la ceramica. Nelle sue opere ferro e argilla si fondono per restituire qualcosa di imprevedibile, apparentemente inquietante ma sorprendentemente armonioso. Grazie a lui oggetti abbandonati tornano in vita sotto una nuova veste che assorbe la storia passata e la carica di presente. Vecchi scheletri, risultati di processi industriali e seriali, si ripopolano di materia organica, restituendo allo spettatore scenari che non sono apocalisse ma genesi.

Radiografie di territori

Le storie di Paolo Polloniato e Alessio Pellicoro sono vicinissime anche se distanti 900 km. Paolo è di Nove, cittadina veneta che vanta una grande tradizione ceramica. Terra bianca e tante fabbriche che nel corso degli anni sono iniziate a diminuire lasciando sul posto scheletri impregnati di storia.
Alessio nasce e vive a Taranto, città che l’industria siderurgica ha fortemente condizionato mentalmente, ecologicamente e urbanisticamente. Sia Paolo che Alessio conoscono bene il territorio d’appartenenza, lo sentono loro, è in parte anche loro. Si interrogano su cosa sia il progresso e su quello che ha lasciato alla loro terra. Sentono il bisogno di documentare la storia, presente e passata, di lasciare una traccia per il futuro.
Paolo inizia giovanissimo, facendo graffiti. La tag POL comincia a comparire nelle periferie e sui muri di fabbriche dismesse della pianura veneta padana. Tra quei muri e Paolo ora c’è POL, ma quei muri non dividono, anzi diventano mezzo per affermare identità, presenza, storia.
Alessio cresce a Taranto e si avvicina alla fotografia intorno ai vent’anni. Cresciuto in una città costretta all’incertezza e al caos si accorge presto delle potenzialità della fotografia. La fotografia può documentare e può analizzare, può essere indagine e ricerca. È equilibrio. Nei suoi scatti le luci danno potere e forza alle ombre, facendone emergere l’anima e il carattere, privandole di quel lato oscuro che spaventa.
Entrambi studiano. POL all’Accademia di Belle arti di Venezia, Alessio allo IED (Istituto Europeo di Design) di Roma.
La loro sperimentazione si affina fino a diventare vera e propria identità.
Quando POL entra in contatto con la ceramica tutto si definisce e prende forma. POL smette di essere una tag sulle pareti di fabbriche e periferie abbandonate per diventare superficie da taggare.
In POL ci sono decori di scheletri che rivendicano la propria dignità. Ci sono stampi in gesso di fabbriche dismesse e scarti d’argilla di botteghe che resistono. Ci sono denuncia e speranza. C’è storia. Quella di POL che non può essere raccontata senza parlare di Nove e quella della ceramica di Nove, e non solo, che non può essere raccontata senza parlare di POL.

Alessio decide di raccontare Taranto in maniera approfondita nel 2017. Sa cosa vuole raccontare e come farlo. È tutto chiaro nella sua mente e diviene magistralmente evidente nei suoi scatti. Le foto de “L’altro deserto rosso” sono chiarezza e ordine in un territorio governato dal caos, sono radiografie attraverso cui analizzare e conoscere quella parte di Taranto che non si vuole vedere per paura o per sdegno. Perché Taranto è anche altro, ma se si osservano attentamente gli scatti di Alessio non possiamo che notare che quell’altro è presente e ricondotto ad una dimensione incredibilmente intima che non vuol dire rassegnazione ma speranza, presa di coscienza e conoscenza.

Nutrimento quotidiano

Ci sono fenomeni di massa che determinano cambiamenti, a volte stravolgimenti. Possono essere graduali e poco percepiti o improvvisi, diventando scossoni che modificano culture di intere città, regioni, nazioni.
Il lavoro di Gabriele Albergo e Silvia Naddeo parte da un’attenta osservazione della realtà e dei processi che i fenomeni di massa portano a usi e costumi dei luoghi.
Gabriele nasce in provincia di Lecce ed entra in contatto con la fotografia da piccolo, nello studio del padre. Ma della fotografia a Gabriele non gliene frega niente, almeno fino ai trent’anni; la musica hardcore e il punk sono la sua passione.
Silvia è romana di nascita e nella capitale frequenta l’Istituto d’Arte. Durante uno dei corsi scopre il mosaico e se ne appassiona così tanto da decidere di trasferirsi a Ravenna per seguire l’Accademia di Belle Arti e specializzarsi nel settore.

Gabriele ha vissuto personalmente gli stravolgimenti che hanno segnato la Puglia. Una regione divenuta moda, fatta di slogan e foto identiche da postare. Un luogo dove le tradizioni sono state travisate e le autenticità mercificate, dove basta aprire instagram per scoprire centinaia di fotografi che postano “identità” territoriali standardizzate. Gabriele ha qualcosa di diverso. Gli scatti di “Salento Death Valley” (nome della sua pagina instagram) sono umoristici, sporchi, punk ma soprattutto onesti. Osservandoli capiamo che la vera autenticità si nasconde dietro gli standard a cui ci stiamo abituando e che va ricercata altrove: nella spina della corrente appesa alle spalle della madonnina o abbandonata su una panchina assolata di periferia.

Per Silvia il cibo è cultura, storia. È attratta dal potere che ha il cibo nel generare tendenze ed è affascinata dai processi che li determinano. La sua ricerca è caratterizzata da opere che stimolano ricordi ma soprattutto invitano alla riflessione. Silvia utilizza un linguaggio pop, facilmente accessibile ma assolutamente non superficiale.
Con lei il mosaico, che siamo abituati a considerare superficie piatta, diventa scultura a 360 gradi. Non è un passato da rivivere nei musei ma presente da incrociare nelle nostre vite. È cibo ma non solo. È quotidianità. Puoi ritrovartelo aprendo il frigo di casa, al supermercato, in spiaggia adagiato su uno dei miliardi di cucchiaini di plastica abbandonati in mare.

Terreno e Ultraterreno

Avete mai indossato una maschera? Perché lo avete fatto? Per gioco, paura, sfida o convenzione?
Per sentirvi protetti o per mostrarvi più forti? Per scappare da qualcosa o per raggiungere un obbiettivo?
Ci sono tantissime domande che potremmo porci sulle maschere e darci delle risposte non è semplice. Perché gli esseri umani sin dalle origini hanno fatto ricorso alle maschere per svariati motivi, rituali e idiografici soprattutto.
È in questi due ambiti che trovano spazio e collocazione i lavori e le ricerche di DEM e Ilenia Tesoro.
DEM è simbologia pura. Le sue opere spaziano dalla pittura murale all’illustrazione, dal disegno alla scultura, dalla performance al video. Non ha un mezzo preferito e un materiale predefinito. Tutto è creato in funzione del luogo, della cultura e della storia del posto. Le sue opere sono allegorie, sono un viaggio che va decodificato nella relazione tra passato e presente, uomo e natura. Nessuna sua opera sarà mai fuori luogo perché nasce in funzione di esso, che si tratti di periferia, bosco, grande metropoli o piccolo centro.
Ilenia Tesoro è sentimento. Nei suoi scatti si leggono emozioni espresse in maniera nitida. In uno dei suoi lavori più celebri l’amore è raccontato attraverso l’utilizzo di mani. Luci ed ombre che si sfiorano, si incontrano e si respingono. Come in una danza il sentimento è ricondotto a qualcosa di liberatorio, intimo ma che ha bisogno di essere comunicato. Per questo gli scatti di Ilenia non sono rubati ma neanche costruiti. Nei soggetti rappresentati, infatti, si evince una naturalezza che deriva dalla volontà di raccontare e raccontarsi.
È da queste premesse che dobbiamo partire per comprendere l’importanza e la valenza delle maschere nei lavori di DEM e di Ilenia Tesoro.

Le maschere di DEM nascono dal suo intimo ma rappresentano figure che popolano il nostro inconscio, le nostre case, le nostre campagne. Sono il nostro ricordo, la nostra essenza. Provengono da mondi che non conosciamo ma che riconosciamo. Come maschere arcaiche e tribali hanno funzione rituale e simbolica. Aiutano a conoscere e riconoscere le nostre paure, a sconfiggere incubi e a entrare in contatto con l’essenza dei luoghi e delle persone.

Le maschere indossate dai protagonisti degli scatti di Ilenia hanno un valore idiografico, simile a quello del teatro greco: caratterizzano maggiormente i personaggi e fungono da cassa di risonanza per amplificarne la voce. Negli scatti fatti a Masseria Wave (struttura storica pugliese trasformata in centro culturale con attenzione al mondo queer) i protagonisti posano fieri, indossando maschere che non nascondono persone ma che accentuano personalità, lasciando intravedere sguardi che lanciano provocazioni e non sfide.

INTRAME 2023 – Presentazione –

È pronta.
Dopo aver cotto per giorni le nostre menti alla ricerca degli ingredienti giusti abbiamo sfornato la nostra prima mostra da curatori: INTRAME.
Il menù propone opere che vi permetteranno di assaporare le parte più interiore dell’io e luoghi spellati di patine e privati di bollini DOC. Una ricetta unica, impossibile da reperire altrove perché ideata da Sano/sano, artisti che usano linguaggi diversi per trattare temi comuni.
Ecco svelato l’ingrediente segreto: la convivenza.
Trascorsi dieci anni dalla nostra prima mostra possiamo affermare con certezza che abbiamo imparato a convivere, con il nostro io e con l’altro. Abbiamo capito che medium diversi possono comunicare creando un messaggio unico, più forte. Ci siamo messi alla ricerca di scultori e fotografi originali. Ma prima di farlo ci siamo interrogati su cosa fosse l’originalità. In un mondo dove tutto sembra essere già stato fatto essere originali significa guardarsi dentro, osservare ciò che ci circonda, raccontare quello che succede. È solo mettendo in relazione il nostro intimo con l’essenza dei luoghi che si genera qualcosa di autentico, unico. Ma l’unicità non va preservata isolandola per evitare contaminazioni, deve poter comunicare per sopravvivere. Così abbiamo deciso di ospitare opere di otto artisti che non si conoscevano tra loro ma che avevano sviluppato progetti compatibili pur utilizzando linguaggi completamente diversi.

Ilenia Tesoro / DEM
Gabriele Albergo / Silvia Naddeo
Alessio Pellicoro / POL Polloniato
Angelo Marinelli / Matteo Vernocchi

Li abbiamo divisi a coppie e fatti comunicare per creare un percorso che partendo dalla superficie della terra scava fino alla parte più profonda dell’io.
Non ci sono fili conduttori, ma storie che per l’occasione si intrecciano creando una trama diversa.
Sono storie che provengono dalle periferie dell’arte contemporanea (unici luoghi ancora autentici dove ricercare stimoli) e dall’intimo di ciascun artista che questi posti li vive e li racconta in maniera diversa, utilizzando linguaggi pop e ironici o brutali e spietati. Linguaggi originali che non sono e non saranno mai moda perché una volta sdoganati diverranno consuetudine e perderanno la forza intrinseca che li sostiene. Quella forza che nasce dal profondo, dei luoghi e delle persone.

SANO/SANO
Dario Miale e Giorgio di Palma